In carcere madre e bambino?

La condanna di Anna Maria Franzoni ripropone il tema della detenzione in carcere delle madri di figli minori: privare un bambino della figura materna, in quanto figlio di una detenuta, costituisce una violenza inaudita, che contraddice espressamente i contenuti della Convezione delle Nazioni Unite sui diritti dell’infanzia, oltre a essere sul filo dell’incostituzionalità.

La criminalità femminile è divenuta materia di indagine e di studio solo negli ultimi trent'anni, quando le donne, divenute protagoniste del profondo cambiamento sociale che ha interessato il nostro paese, hanno ottenuto l’approvazione di tutta una serie di leggi (procreazione controllata, depenalizzazione dell'aborto, abrogazione del reato di adulterio femminile, parità nell’accesso al lavoro, …) dirette al raggiungimento della piena emancipazione.

In passato le strutture di contenimento tipicamente femminili si caratterizzavano per l’ambiguità del luogo di internamento, sia per quanto riguardava le finalità istituzionali, che oscillavano tra assistenza, beneficenza e repressione, sia per le cause della segregazione. Specificamente per le donne criminali, alla fine dell’800 esistevano in Italia le case penali femminili della Giudecca, di Perugia e di Trani, prevalentemente rette e gestiti da religiose, con poche interferenze da parte dello Stato. Il regolamento interno imponeva alle ospiti di muoversi e agire con compostezza e riserbo. Al momento dell’ingresso in istituto la nuova venuta era reclusa in una cella d’isolamento e il personale, a sua insaputa, la osservava, o meglio la spiava, con lo scopo di determinarne la tipologia di comportamento. Successivamente, in relazione alla condotta manifestata e “valutata” dalle sorveglianti, la giovane o la donna veniva assegnata alla sezione ritenuta più consona per lei e sottoposta a un trattamento particolare, che variava soprattutto in relazione alla quantità e alla qualità del cibo. Il lavoro, obbligatorio per tutte, scandiva i ritmi della quotidianità per non meno di 12 ore. Le mansioni variavano tra cucito, tessitura, ricamo, orticultura, lavanderia e cucina. Non era permesso tenere bambini: se una detenuta dava alla luce un figlio in carcere, si affidava immediatamente il piccolo ad un istituto; la madre non aveva più alcuna possibilità di vederlo né di avere qualsiasi forma di contatto col figlio.

Nel corso degli anni è mutato radicalmente il modo di concepire il carcere: la normativa penitenziaria (legge 354/75) cominciò ad affrontare il problema della donna detenuta in relazione alla maternità con la previsione di una assistenza particolare di specialisti alle gestanti e alle puerpere e la possibilità di tenere il figlio presso di sé in carcere ma solo fino al compimento del terzo anno di età. La legge 663/86 inserì la possibilità di scontare le pene più lievi nella forma della detenzione presso il loro domicilio. Nel 1993 la legge elevò l’età dei piccoli “detenuti” prima a cinque e poi a dieci anni, prevedendo la possibilità di concedere la detenzione domiciliare anche al padre detenuto qualora la madre fosse deceduta o assolutamente impossibilitata a dare assistenza ai figli.

Infine, con la legge 40/2001, si è riconosciuto il diritto del bambino a stare con la propria madre e a non subire restrizione alcuna nelle relazioni affettive, nonché il diritto della madre a crescere i propri figli in un ambiente sano. La normativa prevede l’applicazione di due tipi di benefici specifici per le madri con figli di età fino a dieci anni: la detenzione speciale domiciliare e l’assistenza esterna dei figli minori. Nella prima ipotesi, il Tribunale di Sorveglianza può ammettere l’espiazione della pena presso il domicilio della madre (o in altro luogo di privata dimora, ovvero in luogo di cura, assistenza o accoglienza), al fine di provvedere alla cura e all’assistenza dei figli minori di anni dieci, dopo l’espiazione di almeno un terzo della pena, ovvero dopo l’espiazione di almeno 15 anni nel caso di ergastolo, qualora non sussista un concreto pericolo di commissione di ulteriori delitti e vi sia la possibilità di ripristinare la convivenza con i figli. Al compimento del decimo anno di età del figlio, il beneficio può essere prorogato quando sussistano i requisiti per l’applicazione della semilibertà; altrimenti la donna potrà, in considerazione del comportamento tenuto, nonché della durata, della misura e dell’entità della pena residua, essere ammessa all’assistenza all’esterno dei figli minori.

Ma, in questo campo, l’evoluzione dettata dal diritto internazionale e dalla Corte Costituzionale galoppa verso nuovi e più avanzati livelli: "In un paese civile e per un'Amministrazione che voglia essere degna dello Stato che serve e rappresenta, i problemi umani non ammettono disattenzioni, distrazioni ed insensibilità, né ammettono rifiuti o ritardi, giacché il prezzo di questi è l'attesa spasmodica e la moltiplicazione delle sofferenze di chi chiede, è l'intollerabile inquietudine e rimorso di coscienza di chi, potendo fare tutto o almeno qualcosa, non fa nulla o fa meno di quello che potrebbe" (N. Amato, ex direttore generale delle carceri italiane).

30 maggio 2008