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Mandare a “vaffa” il sindaco non è reato

Nel corso di una seduta del Consiglio Comunale di una città abruzzese, un consigliere comunale si era rivolto all’assessore nonché vice sindaco, dicendogli "(omissis) vaffanculo" (ci scusiamo per il “francesismo”, ma quando si commenta una sentenza bisogna riportare integralmente i fatti). Il Tribunale monocratico assolveva il suddetto consigliere dall'imputazione di ingiuria perché la di lui condotta era da ritenersi scriminata ai sensi dell'art. 599 del codice penale, comma 2 (provocazione della parte offesa): in particolare il giudicante, nel ravvisare la ricorrenza dell'esimente della provocazione, rilevava che l’assessore nonché vice sindaco, pur consapevole che alla seduta del consiglio assistevano molte persone che si riconoscevano nell'area comunista, aveva affermato che ci si doveva vergognare di essere comunisti.

La Corte di Appello, ribaltando la sentenza, dichiarava l'imputato responsabile. Avverso la decisione di secondo grado l'imputato proponeva ricorso per Cassazione, la quale, con sentenza 23 maggio 2007 n.27966, hadichiarato l’insussistenza del fatto. Rileva la Corte che vi sono talune parole ed anche frasi che, pur rappresentative di concetti osceni o a carattere sessuale, sono diventate di uso comune ed hanno perso il loro carattere offensivo, prendendo il posto, nel linguaggio corrente, di altre aventi significato diverso, le quali invece vengono sempre meno utilizzate; un simile fenomeno si è verificato rispetto a numerose locuzioni, quali ad esempio: "me ne fotto" in luogo di "non mi cale"; "è un gran casino" in luogo di "è una situazione disordinata" e del pari con riguardo all'espressione oggetto dell'imputazione, "vaffanculo", la quale trasformatasi sinanco dal punto di vista strutturale (trattasi ormai di un'unica parola), viene frequentemente impiegata per dire "non infastidirmi", "non voglio prenderti in considerazione" ovvero "lasciami in pace".

In realtà è l'uso troppo frequente, quasi inflazionato, delle suddette parole che ha modificato in senso connotativo la loro carica: il che ha determinato e determina certamente un impoverimento del linguaggio e dell'educazione, non potendo peraltro negarsi che, in numerosi casi, l'impiego delle medesime non superi più la soglia della illiceità penale. Peraltro, continua la Cassazione, quanto sinora esposto è senza dubbio condizionato dal contesto in cui si inseriscono le espressioni citate: è evidente che se queste vengono pronunciate dall'interessato nei confronti di un'insegnante che fa un osservazione o di un vigile che da una multa, esse assumono carattere di spregio; diversa è la situazione se esse si collocano nel discorso che si svolge tra soggetti in posizione di parità ed in risposta a frasi che non postulano, per serietà ed importanza del loro contenuto, manifestazione di specifico rispetto.

Orbene, nel caso in esame la parola incriminata fu pronunciata da un consigliere nei confronti di un altro e di rimando ad una frase della parte offesa evocativa di errori passati del comunismo, ma del tutto qualunquistica, ossia priva di serio esame e di consapevole critica con riguardo al presente: ne consegue che la condotta verbale dell'imputato rappresentò una maleducata e volgare manifestazione di insofferenza, ma non fu tale da offendere l'onore ed il decoro dell'interlocutore ai sensi dell'art. 594 del codice penale. La Cassazione ha pertanto annullato la sentenza impugnata perché il fatto non sussiste.

16 dicembre 2008 

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